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Dal senso di colpa al senso di inadeguatezza: alcune considerazioni



Esprimendosi a proposito della sofferenza psichica, Alain Ehrenberg sostiene che, al giorno d’oggi, molte delle sofferenze più comuni nascano a seguito della contrapposizione fra ciò che è possibile e ciò che è impossibile.


Si tratta di una contrapposizione che si potrebbe dire in qualche modo esistenziale, perché oggi sulla base di questi due poli (possibile/impossibile) l’uomo sempre più tende a vivere e a interpretare la propria esistenza.

Tale contrapposizione, afferma Ehrenberg, ha sostituito quella precedente, la quale aveva per poli il lecito e l’illecito.

Se il passato era caratterizzato da una grande abbondanza di “proibizioni”, sottolinea Ehrenberg, il tempo attuale si distingue per un eccesso di “possibilità”.

Tali possibilità hanno però un carattere quasi contraddittorio perché, come ben sottolinea Zygmunt Bauman, nella società di consumatori nella quale viviamo domina un precetto cogente secondo il quale, se qualcosa è possibile, devi farla (e tanti saluti alla libertà di scelta e alla natura “possibile” della possibilità).

Se così non fosse, precisa Bauman, l’economia di tipo consumistico che contraddistingue la cultura contemporanea andrebbe in crisi.

Il mondo intorno a noi è cambiato e continua a cambiare velocemente, ma la consapevolezza delle implicazioni profonde di tali cambiamenti tarda ancora a mostrarsi nella sua interezza.

In questi tempi dolenti appaiono estremamente attuali (e quasi un balsamo per il rimedio che esse implicitamente contengono) le acute riflessioni di Ortega y Gasset, il quale invitava a considerare attentamente la distinzione fra la chiacchiera e la parola: l’una abita la superficie delle comprensioni che possiamo guadagnare, l’altra dimora nei suoi livelli più profondi; l’una è orientata al superfluo, l’altra all’essenziale, a ciò che non può essere tralasciato; l’una confonde, l’altra disvela; e ancora: l’una, come direbbe Fritz Perls, richiede poca fatica per la “masticazione mentale” dei contenuti, l’altra al contrario comporta un grande impegno (ma in cambio di questo impegno dona “vitalità e accrescimento”).

Pian piano la chiacchiera si è fatta strada nelle nostre vite, ha occupato spazi una volta riservati alla parola e con il tempo ha cominciato perfino a travestirsi da parola.


Nel mentre, altri mutamenti incominciavano ad aver luogo.

Abbiamo iniziato ad essere sottoposti ad un flusso incessante di “richieste” ambientali divenute via via sempre più pressanti (da principio quasi senza accorgercene, ma ora ne avvertiamo tutto il peso).

Ad esempio (l’elenco non è esaustivo perché questa dinamica si ripropone in maniera fluida anche in contesti e per “contenuti” differenti da questi indicati): dobbiamo essere prestanti, belli, capaci, pronti ed efficaci nel rispondere, efficienti.

Dobbiamo davvero ottemperare a queste richieste? Certo che dobbiamo!

Perché? Perché tutto ciò è possibile, e se non lo facciamo noi, sarà qualcun altro a farlo. Questo è il pesante vissuto che ci trasciniamo dentro.

L’orrore della colpa, dice Ehrenberg, ha ceduto il passo al terrore dell’inadeguatezza.

In qualche maniera parrebbe che l’uomo stia spostando totalmente all’esterno di sé la questione della propria “realizzazione”, della conoscenza di sé e, in certa misura, della responsabilità del proprio destino.


A furia di guardare fuori sembra quasi che egli stia pian piano disimparando a stare con se stesso (cosa che, paradossalmente, gli rende anche più difficile stare realmente con gli altri).


A questa sorta di movimento centrifugo che ci allontana da noi stessi andrebbe opposta una benefica “riconquista del centro”: abbiamo bisogno di guardarci dentro, abbiamo bisogno di ascoltarci e di sentire il nostro corpo (non come un “oggetto” da confrontare con altri corpi, ma come quell’unicum che fa tutt’uno con la nostra psiche e che ci mette in contatto con gli altri). Non a caso Margherita Spagnuolo Lobb in termini gestaltici individua nella “desensibilizzazione del confine di contatto” fra noi e l’ambiente uno dei tratti caratteristici della sofferenza nella società postmoderna.

Come far fronte a tutto questo?

Riorientando la nostra attenzione, esercitando consapevolezza e volontà, giorno dopo giorno; scegliendo le parole che pronunciamo; ricollocando nel giusto equilibrio la parola e la chiacchiera.

Per concludere: possiamo dire che l’unico paragone giornaliero (simile a quello che un tempo veniva chiamato esame di coscienza) che ha valore e utilità, nell’economia di questo discorso, non è quello fatto con gli altri ma è quello fatto con se stessi: com’ero ieri? Come sono oggi?

Ciascuno può trovare la risposta dentro di sé.


Pubblicato il 09/08/2020 - Photo by engin akyurt on Unsplash

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