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Fra la certezza e il dubbio(Stralci di un colloquio fra Paziente e Terapeuta)

Aggiornamento: 6 ott 2023



Qualche giorno fa, con rammarico, un giovane paziente riferiva quanto segue.


Pz: Se una cosa non la faccio in maniera perfetta, non la faccio affatto.


Dopo averci pensato un po’.

T: Da quello che mi racconti, se ho capito bene, ti trovi spesso in questa situazione: o una cosa è perfetta (in base a come tu la intendi), e quando è così hai l’assoluta certezza di averla fatta bene, oppure quella cosa la ritieni sbagliata in maniera assoluta. E in questo caso non si tratta di qualcosa che è semplicemente fatta male, ma si tratta di qualcosa che ritieni essere fatta male in maniera irreparabile, tanto che la lasci stare e te ne allontani.


Pz: Si, è così.


T: Sai, in un primo momento ho pensato che questi due estremi di cui parliamo fossero due certezze opposte, ma poi ho iniziato a considerarli in maniera differente: ho immaginato da una parte una certezza assoluta e dall’altra, contrapposto, un dubbio assoluto.


Pz: Un dubbio assoluto? In che senso?


T: Sì, un dubbio assoluto. Perché è come se quella certezza assoluta di aver fatto la cosa in maniera totalmente sbagliata impedisse di vedere tutto il resto. E allora, ho pensato: se non posso vedere tutto il resto è come se fossi in una condizione di incertezza, di dubbio, di dubbio assoluto.


Il paziente annuisce in silenzio.


T: Nelle situazioni di cui mi hai parlato ti immagino così: è come se passassi di colpo da una certezza assoluta ad un dubbio assoluto.


Pz: Ha senso.


Dopo qualche secondo.

T: In questo momento mi sto chiedendo una cosa, e la vorrei chiedere anche a te.


Pz: Ok.


T: Che cosa c’è fra la certezza assoluta e il dubbio assoluto?


Dopo averci pensato un po’.

Pz: Non lo so. Che cosa c’è?


T: La vita. Io credo che ci sia la vita.


Dopo qualche secondo di riflessione.

Pz: Non ci avevo mai pensato in questa maniera.


Prendendo spunto da queste considerazioni (e grazie anche all’alleanza terapeutica che avevamo costruito nel tempo) abbiamo immaginato un esperimento da fare in settimana.

Nello specifico gli ho proposto di fare volontariamente dei piccoli errori graziosi (così li abbiamo chiamati) per mezzo dei quali avrebbe potuto notare e comprendere meglio che cosa accade in lui quando non fa bene qualcosa.

Che sensazioni sente? Che emozioni prova? Che pensieri fa?


Tutto ciò è stato pensato anche per permettergli di fare esperienze in maniera graduale sul tema di cui ci stavamo occupando.

Si tratta - lo ribadisco - di piccoli errori, come ad esempio indossare l’orologio nell’altro braccio o cose simili.

La gradualità in questo caso è un aspetto particolarmente importante: uno degli obiettivi di queste sperimentazioni (oltre a quello primario di raccogliere informazioni) è infatti proprio quello di stimolare indirettamente e gradualmente la capacità del paziente di attraversare lo spazio vitale posto fra i due assoluti di cui avevamo parlato.


Tutto ciò che non viviamo o che non portiamo a compimento - scrive Paul Goodman (uno dei padri della Psicoterapia della Gestalt) - in qualche maniera tende a ritornare.

Questo significa che le esperienze incomplete (perché non portate a termine, o perché non sufficientemente elaborate, o perché non pienamente assimilate) si perpetuano come delle gestalt aperte, e costantemente ritornano a reclamare la propria chiusura.


In un certo senso, potremmo dire che nella vita non facciamo che questo: continuamente apriamo e chiudiamo gestalt (qui il termine gestalt è usato in maniera molto generica come sinonimo di esperienza, una trattazione approfondita richiederebbe uno spazio a parte)

Alcune di queste gestalt aperte - dicevo - nel corso della vita riusciamo a chiuderle solo con molta fatica, altre non le chiudiamo affatto.

Tutto ciò è di particolare importanza, perché gran parte della nostra sofferenza ha a che fare proprio con questi sospesi non pienamente attraversati; sono questi ultimi che irrigidendosi ci conducono ripetutamente a vivere quelle esperienze nelle quali poi finiamo per dirci: “Possibile che mi ritrovo sempre in queste situazioni!”.

Il riferimento qui non è tanto a questioni di contenuto, ma quanto e soprattutto ad aspetti relazionali.


Cosa fare allora in questi casi?

Per chiudere questi sospesi - afferma Fritz Perls (un altro dei padri fondatori della Psicoterapia della Gestalt) - dobbiamo attraversare le emozioni che ad essi sono connesse.

Trattandosi di sospesi legati a questioni relazionali la traversata richiesta non è quella fatta in solitaria: il punto focale infatti non è se (considerati nella nostra individualità) siamo sufficientemente bravi a fare qualcosa; il cuore della questione - lo abbiamo detto - è un’esperienza relazionale, e a questa primariamente dobbiamo fare riferimento.


Si pensi alla vergogna, ad esempio.

Si tratta di un vissuto che sperimentiamo quando ci percepiamo inadeguati, quando temiamo che, così per come siamo, potremmo non essere accolti e apprezzati da chi abbiamo davanti.

Come si può comprendere si tratta di un tipo di esperienza che prende forma all’interno di una relazione.

Per questo stesso motivo, trattandosi di un vissuto di natura relazionale (non si può provare vergogna in solitudine: l’altro, in qualche modo, è sempre presente) esso può sanarsi - dicevo - solo all’interno di una nuova esperienza relazionale; occorre cioè una nuova esperienza nella quale la nostra intenzionalità di contatto con l’altro possa finalmente trovare appagamento e diventare sfondo per ulteriori nuove esperienze.

Ecco perché - tornando all’indicazione di Perls - la traversata dell’emozione anche in questo caso non può essere fatta in solitaria; perché la questione primaria non è quanto vado bene o non vado bene in astratto, ma quanto sento che vado bene o non vado bene in rapporto all’ambiente.

Il tema relazionale - lo ribadisco - non è relativo esclusivamente al vissuto della vergogna citato come modello.

Anche in altre situazioni come quelle in cui, ad esempio, il problema è rappresentato da una marcata esigenza di controllo o da un irrefrenabile bisogno di perfezione, è presente sottostante - secondo la Psicoterapia della Gestalt - un aspetto relazionale che non può essere trascurato.

In sostanza tutto ciò che diventa sintomo - come ben sottolinea Antonio Sichera - può essere opportunamente inteso come un appello alla relazione.

Ed è primariamente proprio a questo appello che mi do cura di rispondere quando qualcuno si rivolge a me.

Come? A volte anche proponendo di fare volontariamente dei piccoli errori graziosi.



Foto di Toru Wa su Unsplash





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