Le riflessioni che seguono ruotano principalmente intorno a tre polarità:
- Il sacro opposto al profano;
- Il durare opposto al consumarsi;
- La concentrazione opposta alla distrazione.
Nel presentarti questi temi farò riferimento ad un testo di Mircea Eliade dal titolo Miti, sogni, misteri.
Il motivo per il quale ho deciso di proporti queste riflessioni è duplice: da un lato, perché trovo il testo di Eliade estremamente interessante, bello e prezioso (prezioso perché, sapientemente, disvela caratteristiche che sono intimamente connesse con l’essenza stessa della natura umana); dall’altro, perché nella mia attività di psicologo mi sono imbattuto spesso (a volte in maniera diretta, alle volte in maniera indiretta) in questo tipo di tematiche.
Prendendo spunto da questa esperienza vissuta, colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che ho incontrato nella mia attività professionale (questo articolo vuole essere proprio un ringraziamento rivolto a tutti loro).
Tengo a precisare quest’ultimo aspetto, perché ritengo che nell’immaginario comune non si abbia sufficiente consapevolezza del fatto che gli incontri (nello spirito di questo articolo parlo volutamente di “incontri” e non di “colloqui”) che avvengono fra lo psicologo e la persona che a lui si rivolge non sono occasione di crescita solo per la persona che chiede aiuto, ma lo sono pure per il professionista che quell’aiuto lo sta offrendo.
Torniamo dunque ai temi oggetto di queste riflessioni e prendiamo le mosse dal concetto di mito.
Mircea Eliade evidenzia che nelle società arcaiche il mito veniva considerato una rivelazione trans-umana avvenuta nel tempo sacro degli inizi (in illo tempore), in quello che veniva chiamato il Grande Tempo (per distinguerlo dal Tempo profano).
Per le società arcaiche - continua il nostro studioso - il mito non solo esprimeva una verità sacra, ma possedeva anche la caratteristica dell’esemplarità; esso serviva, cioè, da modello riproducibile in grado di dare giustificazione a tutti gli atti umani.
Forse ti starai chiedendo cosa abbia a che fare tutto questo con le nostre vite attuali. Per rispondere a questa domanda mi rifaccio ancora una volta alle parole di Eliade.
Secondo questo grandissimo studioso romeno il mito non va interpretato semplicemente (e semplicisticamente) come una modalità di pensiero differente dalla nostra e appartenente a tempi remoti; molto più adeguatamente - egli dice - il mito può essere considerato come la forma per eccellenza del pensiero collettivo.
Da questo punto di vista, fra il mondo arcaico e il mondo moderno non c’è alcuna soluzione di continuità.
Questo vuol dire che anche ai nostri giorni, nella nostra società moderna, è possibile rinvenire alcuni comportamenti che possiamo definire mitici.
La partecipazione dell’intera società a determinati simboli, come ad esempio la bandiera nazionale - sottolinea Eliade - può essere opportunamente considerata come un segno della sopravvivenza fino ai nostri giorni del pensiero collettivo presente nelle società arcaiche.
Il punto sembrerebbe essere dunque non la perdita assoluta del mito o la sua cancellazione, quanto piuttosto il suo essere nascosto, il suo essere relegato o nelle profondità della psiche o (per lo più) in ambiti secondari del vivere sociale (fra un attimo ti dirò meglio in che senso).
Se il mito non occupa più la sua posizione centrale all’interno della società - si chiede Eliade - che cosa ha preso il suo posto?
Che cosa, oggi, funziona da modello esemplare?
Con che cosa, oggi - continua il nostro studioso - l’uomo rompe il Tempo profano con l’intento di ricollegarsi al Grande Tempo in cui dimorano le forze primigenie dotate di capacità creativa?
Tali domande sono ineludibili, poiché le caratteristiche proprie del comportamento mitico (esemplarità, ripetizione, uscita dal Tempo profano e integrazione nel Tempo primordiale) sono, almeno le prime due - sottolinea Eliade - “consustanziali ad ogni condizione umana”.
La risposta proposta dallo studioso romeno è la seguente: diversamente da quanto accadeva nelle società tradizionali, nelle quali l’uomo era in grado di riprodurre un comportamento mitico in ogni suo gesto responsabile, oggi per poter agire in maniera mitica, l’uomo deve ricorrere alla distrazione. Quest’ultima - continua Eliade - nella società moderna è il mezzo predominante con il quale l’uomo cerca di “ammazzare il Tempo” (profano), così da connettersi con le qualità temporali sacre del Grande Tempo.
Le due forme principali di distrazione le troviamo nello spettacolo e nella lettura, che (allo stesso modo dei giochi sportivi) rappresentano - dice Eliade - modelli esemplari degradati di questa azione mitica.
Pensa, ad esempio, alle grandi competizioni sportive: tutte si svolgono in un tempo concentrato, in un tempo che è qualitativamente diverso da quello profano; tutte si svolgono in un tempo che è caratterizzato da grande intensità; tutte si svolgono in un tempo che è il residuo e il surrogato di un Tempo magico-religioso con il quale l’uomo, in qualche modo, cerca di riconnettersi.
In passato, come si è detto, attraverso qualsiasi gesto responsabile (cioè attraverso qualsiasi gesto nel quale l’uomo fosse in grado di convogliare tutta la sua attenzione, la sua intenzionalità e la sua presenza) era possibile produrre un modello mitico.
Ogni attività sociale si svolgeva in un tempo sacro: la nascita, la morte, la guerra, l’amore, il lavoro. Ogni cosa, riconnettendo l’uomo a quanto avvenuto nel tempo primigenio era in grado di sacralizzare l’esistenza umana, rinsaldando il suo legame con il cosmo e alimentando le sue aperture al significato.
Allora non vi era bisogno di distrazione, allora l’uomo era in grado di cogliere il durare nei mutamenti delle cose e, anche nella durezza del vivere, egli era in grado di sentire se stesso come una parte significante di un intero altrettanto significante.
La caduta nel Tempo - precisa Eliade - è iniziata con la desacralizzazione del lavoro e con la meccanizzazione dell’esistenza che da essa ne deriva. Tutto ciò - egli dice - determina una “perdita malamente camuffata della libertà”. In una simile condizione, a livello collettivo, la sola possibilità per evadere dal Tempo (profano) resta appunto la distrazione.
Oggi tutto pare consumarsi velocemente, e altrettanto velocemente tutto pare essere sostituito da qualcos’altro, a sua volta destinato a consumarsi, in un ciclo via via sempre più impoverito e privo di vera essenzialità: tutto ha un prezzo e poche cose sembrano conservare un valore.
Alla concentrazione propria dei gesti responsabili si va sostituendo la distrazione caratteristica dei gesti impersonali.
E così, sempre più frequentemente, abbiamo a che fare, ad esempio, con un saluto distratto, un ascolto distratto, un fare distratto.
Tutto ciò è sempre più diffuso, ma (a dispetto della sua diffusione) non è quello di cui abbiamo bisogno.
I nostri occhi hanno bisogno di vedere e di essere visti.
E sottolineo il concetto di “vedere”, perché un occhio che guarda non ha il calore e il tocco profondo di un occhio che vede. Te lo senti dentro quando incontri davvero qualcuno: certi sguardi e certe parole ti rimangono dentro per sempre.
Modelli esemplari degradati si stanno dunque imponendo sulle nostre esistenze; eppure, in tempi neanche molto lontani, ci furono tramandati i gesti, i tempi e i toni.
Ci è stato insegnato a percepire l’eterno in una stretta di mano, nelle parole di un amico, nella carezza di un padre.
Ci è stato lasciato in eredità un mondo coeso in cui regnavano il culto degli affetti e la cura delle cose, un mondo nel quale (nonostante le grandi difficoltà spesso presenti) difficilmente la solitudine e il vuoto esistenziale (per usare un’espressione di Viktor Frankl) trovavano spazio in maniera così ampia come accade oggi.
Rispetto a quanto fin qui esposto tieni presente quanto segue: le nostre vite scorrono dinamicamente in un continuo processo di formazione di una figura su uno sfondo. Oggi lo sfondo su cui si stagliano le nostre figure è uno sfondo caratterizzato da fragilità, incertezza e instabilità.
Ogni possibile significato che possiamo trovare (o non trovare) nelle nostre esistenze dipende dal rapporto fra ciò che è in figura e ciò che è sullo sfondo delle nostre vite.
L’attenzione clinica (ma non solo clinica) oggi va rivolta primariamente a questo sfondo sofferente.
Per ulteriori approfondimenti al riguardo ti segnalo i lavori di Margherita Spagnuolo Lobb.
Abbiamo parlato di distrazione, di figura e di sfondo.
Sarebbe utile allora domandarsi: “Da che cosa ci stiamo distraendo?”.
Sarebbe utile allora domandarsi: “Che cosa stiamo lasciando sullo sfondo? Che cosa abbiamo in figura in questo momento?”.
Sarebbe utile allora, meglio ancora, è utile allora (necessario, credo) risvegliare il genio sopito della ruminazione, perché se possiamo, forse, tollerare il vuoto, non possiamo tollerare il nulla che avanza.
Sulla base di quanto fin qui esposto, sono convinto che nelle nostre esistenze, oggi più che mai, abbiamo bisogno di recuperare tre cose.
Abbiamo bisogno di recuperare il sacro (inteso come apertura alla dimensione collettiva, all’incontro e al significato); abbiamo bisogno di recuperare l’esperienza del durare (intesa come il recupero delle nostre capacità creative e del nostro rapporto con l’eterno); abbiamo bisogno di recuperare la nostra capacità di concentrazione (intesa come responsabilità, presenza e libertà).
Ritengo che questi tre elementi insieme siano in grado di distillare, per così dire, la nostra quintessenza, intendendo con ciò il concentrato attivo di quella parte migliore di noi che già da oggi, se vogliamo, possiamo offrire a noi stessi e agli altri.
Pubblicato il 29/05/2021
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