Segnalo il testo dell’amico e collega Pier Paolo Cavagna: Paradigma per una pedagogia fenomenologica interrelazionale, Edizioni StreetLib
Come invito alla lettura condivido le mie riflessioni al riguardo.
Per una Pedagogia della Luce ...
Una Pedagogia delle Tenebre
non può che essere il suo contraltare
Caro Pier Paolo,
ho letto con molto piacere e con grande interesse il testo che mi hai donato.
Il tuo Paradigma ha accompagnato costantemente i miei pensieri in questi ultimi giorni, e non ti nascondo che, per certi versi, li ha anche un po’ tormentati.
Li ha un po’ tormentati - dicevo - perché le tue riflessioni mi hanno in un certo senso incalzato, obbligandomi a cercare una risposta (che non trovavo) riguardo alla differenza fra la Pedagogia (così per come l’hai definita) e la Psicoterapia (così per come la intendo e la vivo).
Una risposta infine l’ho trovata (sebbene provvisoria): te la esporrò nel corso di queste pagine.
Incomincio col dire che, ancora una volta, ho apprezzato la tua penna agile e sicura; con uno stile piacevolmente fluido hai saputo dar voce ad un pensiero (il tuo) attento, puntuale e profondo.
Su molte cose mi trovo d’accordo con te, e d’altre parte come potrei non esserlo, avendo io stesso abbracciato un modello di psicoterapia (quello della Gestalt) che si abbevera anch’esso alle fonti della fenomenologia.
Su altre cose, invece, ho idee differenti.
E di queste ultime, accogliendo il tuo invito, vengo ora a parlarti.
Leggendo il tuo Paradigma mi è venuto da pensare che tu abbia delineato i tratti di quella che - un po’ giocosamente - mi viene da chiamare una Pedagogia della Luce (intendendo con questa espressione tutto ciò che idealmente - seguendo le tue riflessioni - la Pedagogia dovrebbe essere ma ancora non è).
A questa forma luminosa io credo che necessariamente (nel momento in cui essa è posta) non possa che accompagnarsi quella che - altrettanto giocosamente - mi viene da definire come una Pedagogia delle Tenebre (intendendo con questa espressione tutto ciò che idealmente la Pedagogia non dovrebbe essere eppure ancora è).
Nella definizione di entrambe le forme (quella luminosa e quella tenebrosa), come puoi notare compare un avverbio di tempo: io credo che questo avverbio rappresenti (almeno così me lo immagino) la variabile ineliminabile che collega - e in un certo senso alimenta con la sua tensione - queste due forme di Pedagogia.
In verità le considerazioni che vado a esporre prendendo spunto dalle tue riflessioni le ritengo idealmente valide anche per altri campi dell’esperienza umana; similmente, potremmo parlare ad esempio di una Psicoterapia della Luce e di una Psicoterapia delle Tenebre.
Ora, venendo al cuore della questione: come tu stesso hai scritto in Paradigma, la tua è una Pedagogia del tra (intendendo sottolineare con questa espressione che si tratta di una pedagogia che si concentra, si costituisce e si realizza sulla e nella relazione). Proprio a partire da questo
aspetto - che tu stesso hai indicato come fondante - hanno preso avvio le mie riflessioni.
Il confine di contatto fra l’organismo e il suo ambiente (il tra) - come hai sottolineato - è il luogo dell’esperienza, il solo nel quale quest’ultima può realizzarsi e prendere forma.
Ciò significa che né l’organismo né l’ambiente possono esperire e produrre alcunché considerati come separati l’uno dall’altro.
Su questi assunti, leggendo Paradigma, mi è venuto spontaneo immaginare le due Pedagogie (che giocosamente ho chiamato della Luce e delle Tenebre) come due colonne (d’Ercole?) che si scrutano reciprocamente e che insieme delimitano un tratto di mare che non può che essere attraversato, se si vuole reale esperienza.
A mio modo di vedere, né la Pedagogia della Luce né quella delle Tenebre sono in grado di produrre da sole - ciascuna nella solitudine del proprio spazio separato - niente che, a ben vedere, non sia altro che illusione (talvolta anche pericolosa!).
E allora - amico mio - vorrei fare insieme a te questa traversata fra le colonne proponendoti alcune considerazioni riguardo a tre temi di cui ti sei occupato nel tuo testo: la domanda, il qui e ora e la normalità.
Incominciamo con il primo tema: la domanda.
Quest’ultima - scrivi - non rientra negli spazi operativi (sembrerebbe invero neanche in quelli teorici) del tuo modello di pedagogia.
Tutta concentrata sull’aspetto relazionale, la Pedagogia della Luce riconosce al pedagogista solo un ruolo di catalizzatore della relazione, lasciando la questione della domanda (fatta di bisogni e di aspetti contenutistici) al suo contraltare tenebroso.
Non credo che questo sia possibile (almeno non in senso assoluto).
In quanto viventi, non ci è concessa (non ci è propria, direi) una soluzione definitiva siffatta; quello che ci è concesso sperimentare (che è conforme al nostro modo di fare esperienza) ritengo essere invece un continuo variare di figure che emergono da uno sfondo.
E allora, per tornare alla questione della domanda, non credo sia possibile agire come se quest’ultima non ci fosse (intendo dire che non possiamo metterla sullo sfondo una volta per tutte).
La domanda non può essere elusa (né all’interno di noi stessi, né all’esterno).
Qualcosa costantemente ci spinge e ci orienta nel mondo.
Qualcosa dentro e fuori di noi ci muove e ci attira allo stesso tempo.
Qualcosa pretende una nostra risposta (sia essa psichica o fisica), e noi non possiamo esimerci dal fornirla.
E così, ad esempio, qualcuno diventa psicoterapeuta e qualcun altro pedagogista (e qualcuno - come te - diventa entrambe le cose).
Se una persona arriva davanti ad uno psicoterapeuta o davanti ad un pedagogista qualcosa ce l’avrà pur portata, non credi?
Qualcosa che sia ulteriore al primario bisogno di relazione intendo.
Pensi che sia davvero possibile non tenere conto di questa domanda sottesa (implicita o esplicita che sia)?
Pensare di poterlo fare in senso assoluto io credo sia un’illusione; un’illusione che - se fosse alimentata - condurrebbe alla costruzione di quello che io considero un significato monco (vale a dire un significato costruito guardando al frammento invece che all’intero dell'esperienza).
Dal mio punto di vista, sotto questo riguardo, collegare ad una relazione un significato monco equivarrebbe ad attribuirle - di fatto - un non significato.
E questo - sempre dal mio punto di vista - ritengo sia qualcosa da evitare (per quanto possibile).
Veniamo al secondo tema: il qui e ora.
Anche in questo caso la Pedagogia della Luce assume una posizione molto netta; tanto netta da apparire come noncurante di qualsiasi altra dimensione temporale che non sia quella del presente.
L’enfasi con cui sottolinei il focus della tua Pedagogia su questa dimensione temporale mi ha fatto riflettere.
In quanto gestaltista anche io sono fortemente orientato sul qui e ora.
E proprio per questo mi sono domandato: “Cosa significa realmente questa espressione (qui e ora)? Cosa intendiamo quando diciamo che lavoriamo sul qui e ora?”.
Ci ho pensato a lungo e sono giunto infine alla conclusione che tale espressione non indichi primariamente una dimensione temporale specifica, e fra un attimo ti dirò perché.
Quando ci riferiamo al qui e ora, più che all’aspetto temporale in sé - come ti dicevo - in realtà io credo che ci stiamo invece riferendo allo sforzo e all’intenzione cosciente con cui cerchiamo di mantenere la nostra attenzione concentrata su una determinata porzione di esperienza.
Il punto cruciale - dal mio punto di vista - è in verità il seguente: relativamente alla nostra conoscibilità, tale porzione di esperienza (indipendentemente dalla sua apparente estensione) contiene sempre al suo interno presente, passato e futuro.
Se così non fosse, come potremmo costruire una narrazione delle esperienze che viviamo?
E se anche potessimo conoscere davvero la purezza ideale dell’attimo presente, che tipo di conoscenza sarebbe?
Io non riesco ad immaginare altro modo di pensare tale conoscenza se non come un completo silenzio, come un vuoto (o un pieno) assoluto.
E allora mi domando: nell’incontrare il proprio cliente, al Pedagogista della Luce, in che modo gioverebbe una siffatta conoscenza?
E seppure tralasciassimo gli aspetti della narrabilità - ribadisco - neanche in questo caso potremmo pensare ad un presente in purezza.
A questo riguardo mi vengono in mente Gerald Maurice Edelman e Giulio Tononi e la loro Teoria dei rientri.
In riferimento a quella che essi chiamano coscienza primaria - vale a dire la capacità di elaborare, attimo per attimo, un’immagine mentale integrata nel qui e ora (senza l'intervento del linguaggio o la presenza di un vero e proprio senso del Sé) - i due studiosi sottolineano quanto segue.
Tale integrazione - dicono - è dovuta non solo alla categorizzazione percettiva (che a sua volta seleziona in maniera distribuita lungo il sistema talamo-corticale determinati processi neurali a scapito di altri), ma anche all'interazione fra i segnali provenienti dall'interno del corpo e dallo stesso cervello.
In qualche maniera - precisano i due studiosi - la categorizzazione in corso modifica quelle passate, e queste ultime, a loro volta, influiscono su quella presente.
Proprio per sottolineare questo aspetto creativo della memoria biologica (che sembra non funzionare in maniera replicativa), essi parlano di un presente ricordato, e lo definiscono come un elemento fondante all'interno dei processi che determinano l'esperienza cosciente.
Ecco - per fare un po’ il punto di quanto fin qui esposto - io credo che possiamo dire che tutti gli incontri (compresi quelli pedagogici e psicoterapici) quand’anche sono focalizzati sul qui e ora inevitabilmente contengono ciò che è stato e ciò che potrebbe essere (tutto ciò - come puoi immaginare - si ricollega in qualche maniera con quanto precedentemente esposto a proposito della domanda).
Più ci penso e più mi convinco che uno dei meriti del tuo Paradigma è che invita a riflettere.
Hai il coraggio di assumere posizioni nette, e così facendo spingi chi legge a non dare niente per scontato (obblighi di fatto a prendere posizione).
Il tuo è un continuo invito rivolto ai professionisti a verificare la consapevolezza dei propri assunti teorici e il significato della propria pratica professionale.
A mio modo di vedere, le tue riflessioni producono il seguente benefico effetto (forse andando anche al di là di quelle che erano le tue intenzioni).
Le tue riflessioni - dicevo - in qualche modo obbligano il lettore a fare la spola fra gli aspetti propri di entrambe le Pedagogie (quella della Luce e quella delle Tenebre).
Mi sento di dire che Paradigma inevitabilmente - per come si pone - in un certo senso sollecita l’interlocutore (e azzarderei dire anche l’Autore) a tirar fuori le Tenebre dalla Luce e la Luce dalle Tenebre.
È quasi superfluo sottolineare che si tratta di uno sforzo connesso ad un’azione costante e mai definitiva.
Veniamo adesso al terzo tema: la normalità.
Questo è forse quello più delicato.
“La normalità” - scrivi - “è, per me, solo un’altra forma di patologia”.
Mi sono soffermato a lungo a meditare su questo passaggio.
Immaginando di abbracciare questa visione, gradualmente si è generata in me una sensazione di incertezza; quasi una sorta di sospensione nel flusso percepito dei miei pensieri.
Vado a dirti il perché.
Affermare che la normalità è solo un’altra forma di patologia - mi sono detto - equivale a dire che tutto è patologia.
Se così fosse, allora - data questa equivalenza assoluta - potremmo anche dire il contrario: tutto è normalità.
Io credo che imboccando questa strada perderemmo qualcosa di cui invece non possiamo proprio fare a meno (poiché si tratta di qualcosa intimamente connesso alle caratteristiche di funzionamento della psiche umana).
Vediamo in che senso.
Semanticamente il concetto di norma (da cui il termine normalità) contiene al suo interno sia il riferimento alla diffusione (probabilità) di un dato fenomeno, sia il riferimento ad un implicito dover essere.
Questo secondo aspetto (il dover essere) possiede una preziosità che ritroviamo in tanti campi dell’esperienza umana.
Per esempio: lo strumento che anticamente veniva usato per costruire i muri degli edifici si chiamava proprio norma.
Se non si voleva che gli edifici venissero giù, la costruzione doveva essere fatta in un determinato modo (nei margini di un certo dover essere, potremmo dire).
La norma (strumento in grado di misurare angoli e linee) rispondeva proprio a questa esigenza.
Sono d’accordo con te nel ritenere che ogni dover essere è sempre concepito in relazione al suo contesto di riferimento (e che, di conseguenza,
al variare dei contesti possa variare ciò che rispettivamente viene giudicato normale o patologico); ciò nonostante, senza queste due distinte categorie (in assoluto) non possiamo stare. Volenti o nolenti, siamo sempre collocati in un contesto, e con questo dobbiamo fare i conti.
Dal mio punto di vista, considerare totalmente equivalenti la normalità e la patologia (come mi pare faccia fai tu definendo l’una come nient’altro che un’altra forma dell’altra) finisce per essere - dicevo - un’illusione non priva di rischi.
A breve ti dirò in cosa ravviso elementi di rischio, e lo farò prendendo spunto da una frase del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, frase che tu stesso hai citato nel tuo scritto.
Al momento, invece, mi preme sottolineare questo: per poterci adattare all’ambiente costantemente (ed inevitabilmente) formuliamo interpretazioni sul mondo.
E non possiamo non farlo, perché è così che definiamo quei margini di prevedibilità degli eventi che ci servono per vivere la vita.
Lo ribadisco: lo facciamo sempre, anche quando pensiamo che questa pratica non ci appartenga.
Ad esempio: i gestaltisti - si dice - non fanno interpretazioni.
Io non credo. Penso invece che anche noi gestaltisti lo facciamo.
Semplicemente le nostre interpretazioni sono declinate - per così dire - in chiave fenomenologica, ma anche noi, inevitabilmente, interpretiamo.
Ora, per tornare alla questione della normalità e della patologia: queste due categorie - a mio modo di vedere - fanno parte anch’esse di quei mattoncini (insieme a tanti altri) con i quali costruiamo i nostri margini di prevedibilità; e proprio per questo sono qualcosa di non eliminabile in senso assoluto.
Per quanto riguarda invece i rischi di cui ti ho accennato (rischi che, come ti anticipavo, ravviso nell’utilizzo di espressioni universali o assolute) vorrei esporti le mie considerazioni riguardo ad un tema che più volte, e in varie forme, hai analizzato nel tuo scritto; un tema che significativamente mi pare ruotare - in qualche modo - intorno a questa frase di Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi”.
Nello specifico, riguardo alla questione della normalità, ti domandi: “Chi ha determinato lo stampino del prototipo”? E sulla base di quali parametri lo ha fatto?
Alla prima domanda ti rispondi come segue: "Quella minima minoranza, statisticamente insignificante, che detiene il potere economico e soprattutto la capacità di influenzare i rimanenti otto miliardi di persone”.
Alla seconda (quella sui parametri), dopo aver citato la frase di Tomasi di Lampedusa, rispondi così: "i parametri sono presto definiti: qualsiasi cosa che sembri una innovazione ma che poi in fondo si riveli, a un occhio critico più attento, un ostacolo alla messa in discussione dei pilastri del sistema
postcapitalistico”.
Ho l’impressione che, involontariamente, sia caduto tu stesso nelle sabbie mobili dei quantificatori universali, quelle sabbie mobili dalle quali volevi salvare te stesso e la collettività.
Il rischio celato nelle espressioni universali - a mio modo di vedere - è rappresentato proprio da questo: possono generare equivalenze perniciose.
Tutto resta uguale diventa equivalente a Tutto cambia.
E allo stesso modo Tutto è patologia diventa equivalente a Tutto è normalità.
Il problema - sempre dal mio punto di vista - è che tali espressioni divorano le differenze, disperdono il prezioso qualcosa, occultano la novità.
E così, ad esempio, non si è fatto tutto significa che non si è fatto niente.
E ancora: se qualcuno non è tutto da una parte significa che è tutto dall’altra; o - per usare l’espressione che hai usato tu - se non si è parte della soluzione si è parte del problema.
Caro amico, io credo invece che tutti noi (ciascuno con le proprie specificità) siamo insieme parte della soluzione e parte del problema.
La Luce e le Tenebre sono più vicine di quanto si possa pensare.
Prima di giungere alle conclusioni (provvisorie) di queste riflessioni mi fa piacere aggiungere ancora un’ultima considerazione, questa volta relativa alla scelta che hai fatto (e orgogliosamente sottolineato) di utilizzare il termine Cliente al posto di Paziente.
Riguardo a questo, ti dico subito che io (diversamente da come fai tu) utilizzo invece il termine Paziente, e vado a dirti perché non trovo niente di sconveniente o di diminutivo nell’utilizzarlo.
L’etimologia di questo termine (paziente, dal latino patiens) rimanda alla dimensione della sofferenza, e di quest’ultima - in quanto psicoterapeuta - con dedizione mi prendo cura; ecco perché accanto alla parola Terapeuta affianco serenamente quella di Paziente.
A mia volta, voglio sottolineare la serenità con cui lo faccio; perché utilizzando questo termine (Paziente), in alcun modo sento di ridurre l’altra persona a oggetto; anzi, direi che faccio proprio il contrario: sento che dicendo Paziente sto riconoscendo l’altro come un soggetto (in questo caso
sofferente) verso cui sto orientando la mia intenzionalità e la mia compassione (intesa come patire con).
Tutto ciò - a mio modo di vedere - risulta quasi conseguente se si considera la relazione terapeutica nelle sue caratteristiche essenziali.
Sarai d’accordo con me, infatti, che pur essendo una relazione paritaria (nel senso che entrambi i soggetti che la costituiscono sono ugualmente cocreatori dell’esperienza che stanno vivendo insieme), tale relazione è al tempo stesso asimmetrica (poiché uno dei due si prende cura dell’altro).
Quest’ultimo aspetto - che a mio modo di vedere, come dicevo, definisce l’essenzialità di tale relazione - non può essere tralasciato: se così si facesse il concetto in questione perderebbe qualcosa di caratteristico e di prezioso.
Io credo che (per certi aspetti) si possa dire altrettanto della Pedagogia, a maggior ragione se - come tu proponi - anche quest’ultima deve essere inserita fra le professioni sanitarie.
Sono d’accordo con te che in una relazione pedagogica (o terapeutica, per quel che mi riguarda) l’obiettivo primario sia capire chi sia la persona che si ha davanti; ma, oltre a questo, non si può non interessarsi anche a che cosa quella persona faccia (e a come lo faccia); così come non si può non considerare come essa stia nel fare o non fare quella determinata cosa.
Tutto ciò - come già ho sottolineato precedentemente - riconduce all’ineliminabile questione della domanda e ai connessi aspetti del prendersi cura (nelle rispettive modalità) propri della relazione pedagogica e di quella psicoterapeutica.
Veniamo adesso alle conclusioni di queste riflessioni.
Leggendo il tuo Paradigma - come ti dicevo - mi sono trovato a riflettere a lungo sulla differenza fra la Pedagogia e la Psicoterapia (così per come tu hai definito la prima e per come io intendo la seconda).
All’inizio non mi è stato semplice trovare le rispettive specificità, anche perché molte delle caratteristiche che tu hai descritto come proprie della tua Pedagogia (come ad esempio quella di riattivare le risorse relazionali) sono le stesse che caratterizzano la Psicoterapia.
E allora - mi sono detto - qual è la differenza fra le due?
Tu scrivi che: “Nel momento in cui ci spostiamo dal processo di contatto relazionale, dal cosa e come sta succedendo tra me e l'altro, per orientarci verso le motivazioni causali o le ipotesi di sviluppo e decorso, ci siamo spostati dal mondo pedagogico ad altri mondi, a quello psicologico, a quello sanitario. Mondi assolutamente essenziali e utili, ma mondi altri”.
Per le ragioni che ho precedentemente esposto analizzando i temi della domanda, del qui e ora e della normalità, ritengo che una distinzione così netta - sia all’interno della Pedagogia stessa sia fra la Pedagogia e le altre discipline - non solo non sia praticabile, ma non sia neanche aderente alla natura delle cose.
È proprio su questo aspetto che - a mio modo di vedere - le due Pedagogie (quella della Luce e quella delle Tenebre) devono incontrarsi, dando così vita ad un flusso di corrente alternata capace di collegare le caratteristiche proprie della Luce con quelle proprie delle Tenebre.
Occorre fare pace con l’Ombra: la Pedagogia è anche ammaestramento, è anche tecnica, è anche protocolli.
A tutto ciò va certamente aggiunto l’aspetto luminoso, è infatti - come sottolinei con forza - occorre tenere ben presente che “il pedagogista è un professionista esperto dei processi evolutivi orientati, intenzionali, biopsicosociali finalizzati al funzionamento della persona nella biosfera”.
A questo proposito (considerando il riferimento all’aspetto evolutivo e la necessaria integrazione - almeno dal mio punto di vista - fra gli elementi luminosi e quelli tenebrosi) come simbolo dei processi appena descritti suggerirei di sostituire l’immagine che hai utilizzato (quella del granchio che muta il suo carapace) con quella del serpente che muta la sua pelle.
Trovo quest’ultimo simbolo più adatto poiché, oltre a rappresentare il concetto di evoluzione (tramite la muta), simboleggia anche (tramite il veleno) la necessaria integrazione fra gli aspetti polari di cui stiamo trattando.
Il motivo è presto detto: il veleno racchiude in sé qualità opposte e al tempo stesso intimamente collegate.
Se è vero, infatti, che in se stesso è letale, è altrettanto vero che proprio dallo stesso veleno si ricavano gli antidoti salvavita.
Detto questo, vado ad esporre le conclusioni alle quali sono giunto.
Mantenendo il riferimento all’etimologia del termine (la parola pedagogia è composta da paidos, bambino e da ago, conduco), credo si possa dire che - in quanto scienza dell’educazione - la Pedagogia abbia la finalità primaria di condurre (con le modalità che le sono proprie e che tu hai ben illustrato nel tuo testo) l’individuo a diventare parte attiva di una societas via via sempre più estesa.
A questo proposito, seguendo la linea teorica di queste riflessioni, ritengo essenziale sottolineare che ogni processo pedagogico ha tempi e sfondi variabili che non possono essere ignorati.
Ciascuno di noi è collocato in un particolare contesto, e da quello (volenti o nolenti) ci muoviamo - o possiamo muoverci, se opportunamente condotti - verso appartenenze sempre più estese o di carattere universale.
Volente o nolente, amico mio, sei caucasico, borghese, di cultura cattolica (qualunque altra caratteristica presa dall’identico sfondo tu voglia prendere in considerazione ha su di te un impatto altrettanto significativo): ignorarlo o negarlo non può che produrre illusioni pericolose.
Quand’anche rifiutassi determinate categorie, lo faresti sulla base di quelle stesse categorie oggetto del tuo rifiuto.
Perché uno sfondo si modifichi e produca nuove stratificazioni concettuali ci vuole tempo!
A questo proposito, mi tornano in mente le raccomandazioni di Carl Jung, il quale metteva in guardia gli Occidentali dall’illusione di poter vivere la spiritualità orientale come se fossero essi stessi Orientali.
È certamente vero che il nostro cervello apprende da ciò che è differente.
Per poterlo fare, però, ha bisogno di passare primariamente attraverso l’esperienza di ciò che è simile.
Meglio ancora: di ciò che è sufficientemente simile da garantire comprensibilità e rassicurazione.
Gli stessi neuroni specchio si attivano maggiormente di fronte a movimenti che fanno parte del repertorio comportamentale dell’osservatore.
Ad esempio: tu hai esperienza di arrampicata; se insieme osservassimo qualcuno maneggiare l’attrezzatura necessaria per affrontare una parete rocciosa, tu avresti un’attivazione dei neuroni specchio superiore alla mia che invece non ho alcuna esperienza al riguardo.
Ancora una volta - come più volte ho sottolineato in queste pagine - ci troviamo di fronte all’inscindibile rapporto tra figura e sfondo.
Per lo stesso motivo un pensiero divergente ha senso solo in rifermento al suo contraltare (il pensiero convergente): il completo venir meno dell’uno implicherebbe il venir meno del senso dell’altro.
Ora, per concludere: se la Pedagogia - come io credo - ha la finalità primaria di condurre l’individuo a diventare parte attiva di una societas via via sempre più estesa, la Psicoterapia - sempre dal mio punto di vista - ha invece la finalità primaria di aiutare l’individuo a diventare pienamente se stesso.
Le due professioni (quella del pedagogista e quella dello psicoterapeuta) hanno molti punti in comune e, a parte le specificità tecniche proprie di ciascuna, io credo che siano proprio queste due differenti finalità primarie a distinguerle.
In altra sede avremo modo di approfondire questi ultimi aspetti; per il momento concludo queste pagine ringraziandoti ancora per il dono che mi hai fatto (molto gradito) e facendoti gli auguri per gli ulteriori successi che ti attendono.
Guido Muoni
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