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Psicoterapia (una possibile definizione)



Con profondo senso di gratitudine dedico queste riflessioni a tutti i miei pazienti (presenti, passati e futuri); e a mio padre, che più di tutti mi ha fatto capire cosa significa essere visti e riconosciuti nella propria unicità


Negli anni più di una volta mi sono state rivolte domande di questo tipo: “Come funziona la psicoterapia? Come aiuta le persone a stare meglio? La psicoterapia cosa è?”.

Come ho potuto, ho cercato di offrire la risposta più adeguata che riuscissi a formulare.

La verità è che io stesso, più di una volta, me lo sono domandato e continuo a domandarmelo: nella sua natura più profonda cosa è la psicoterapia?

La prima (e per me primaria) considerazione che mi viene da fare oggi è questa: la psicoterapia è uno speciale percorso costellato di momenti di grazia.

Nell’esplicitare tale pensiero e le riflessioni ad esso collegate farò riferimento (fra le altre cose) al bel romanzo dello psicoanalista Emilio Masina, La speranza che abbiamo di durare. Una storia di amore e psicoanalisi, edito da Emersioni a settembre del 2019.

A mio modo di vedere, il romanzo di Masina, a partire dal titolo, ripropone lungo tutta la narrazione un continuo riferimento a duplici livelli di significato e a duplici prospettive.

Nella medesima situazione narrata, ad esempio, è possibile cogliere il riferimento ad un tempo che potremmo definire sacro e ad uno che potremmo definire profano (a breve espliciterò in che senso); o ancora: ad un tempo qualitativo e ad uno meramente quantitativo.

Allo stesso modo lo spazio sembra rivelarsi nella duplice forma di uno spazio materiale e di uno spazio spirituale: spazi all’interno dei quali (e dai quali) prendono vita gli accadimenti che via via sono narrati.

Attraverso un continuo gioco di specchi il lettore è condotto alternativamente attraverso la prospettiva del paziente e attraverso quella del terapeuta; un costante oscillare fra la dimensione privata e quella sociale rivela la natura embricata delle nostre esistenze (con i rispettivi livelli di possibilità fra loro sovrapposti e a volte contraddittori).

Lo stesso titolo dell’opera (La speranza che abbiamo di durare) può essere inteso - dicevo - sia come una previsione sul futuro fatta da un osservatore esterno a partire dalle vicende narrate nel romanzo, sia come una voce interna al romanzo stesso da cui promana la propria intenzionalità verso il futuro (a partire da quello più immediato).

Tale intenzionalità, a sua volta, è doppiamente espressa dall’utilizzo della parola speranza e dalla scelta del verbo durare.

Per inciso: il richiamo all’intenzionalità espresso da parte di quest’ultimo (il verbo durare) mi pare ancora più significativamente evidente se considerando l’intrinseca tensione contenuta al suo interno la si confronta con l’intrinseca pacificazione contenuta invece all’interno del verbo essere.

Durare - dunque - dicevamo.

Ma cosa è che permette di durare ai pazienti e al terapeuta, i protagonisti del romanzo (e anche a tutti noi)?

A permetterci di durare - sembra dirci Masina - sono le relazioni, ma non le relazioni qualunque.

Le relazioni che hanno questa capacità - e qui veniamo al cuore di queste riflessioni - sono quelle la cui intenzionalità è definita sulla base della carità, ovvero dell’amore disinteressato o agape.

Ma come carità? Al terapeuta viene corrisposta una parcella, potrebbe dire qualcuno.

Talvolta, poi, sono anche gli stessi pazienti a farlo presente quando, interrogandosi sulla natura della relazione terapeutica, implicitamente chiedono una rassicurazione riguardo all’autenticità dell’esperienza che stanno vivendo: “Come faccio a sapere se mi ascolta perché la pago o perché è davvero interessato a me? Questo è il suo lavoro!”.

La questione è cruciale, ed è - io credo - intimamente connessa con ciò che determina l’effetto terapeutico.

Le conoscenze specialistiche del terapeuta vengono certamente pagate, ma questo è solo un aspetto della questione.

Il paziente - la precisazione che segue per me è assolutamente determinante - in aggiunta alle spese appena indicate paga solo lo spazio materiale e il tempo quantitativo o profano (per usare l’espressione utilizzata all’inizio di queste riflessioni) nel quale e durante il quale avviene la seduta; ma - per quanto necessario - non è in questo spazio/tempo che si realizza (accade, direi) la trasformazione terapeutica.

Perché questa accada è necessaria anche la costituzione di uno spazio spirituale (così lo abbiamo definito), vale a dire di uno spazio umanizzato e reso soggettivamente significativo dalle storie in esso narrate, a cui deve unirsi un tempo altro, un tempo qualitativo, vale a dire un tempo differente dalla semplice sequenza cronologica.

Gli antichi Greci distinguevano questi due tempi così diversi riconducendoli a due differenti divinità: da una parte c’era Kronos (il tempo cronologico e sequenziale) e dall’altra c’era Kairos (il tempo o momento opportuno).

Ebbene dall’unione di Kairos e dello spazio spirituale - dicevo - deriva quella particolare dimensione spazio/temporale che è quella nella quale avviene l’incontro terapeutico.

A questo proposito mi preme ribadire che, sebbene tutte le conoscenze specialistiche e le competenze tecniche di cui il terapeuta dispone siano evidentemente necessarie (diversamente un colloquio terapeutico si ridurrebbe a “fare una chiacchierata”, e non è questo il caso), tuttavia - io credo - che non sia solo in virtù di questi aspetti che un colloquio terapeutico si possa trasformare in un vero e proprio incontro terapeutico.

Questo aspetto mi sta molto a cuore, poiché sono fermamente convinto che la dimensione dell’incontro sia l’unica in grado di condurre l’uomo a quelle altezze del significato di cui parla Victor Frankl, altezze nelle quali l’uomo può scoprire quella forza trasformativa così evidente anche (e non solo!) in psicoterapia.

Ora, ritornando alla questione della carità e dell’effetto terapeutico ad essa collegato, il punto è che né il terapeuta (da solo con il suo sapere), né il paziente (da solo con la condivisione del proprio dolore) possono produrre a comando il determinarsi di quell’incontro oggetto della nostra riflessione.

Perché questo incontro si realizzi è necessario quel tempo opportuno (opportuno in tanti sensi) di cui abbiamo parlato, quel tempo di cui né il terapeuta né il paziente possono disporre a proprio piacimento.

Il Kairos è dunque qualcosa che autonomamente si presenta, che spontaneamente accade in determinate circostanze (quelle illuminate - vale precisarlo - dal calore della carità).

Quando questo tempo si palesa - io credo - si tratta di un momento di grazia tanto per il paziente quanto per il terapeuta: entrambi ne sono toccati, attraversati, in qualche modo trasformati (pur restando immutati nella loro intima essenza).

Ora, proprio poiché si tratta di un tempo non disponibile a proprio piacimento, di un tempo separato, sacro - potremmo dire in tal senso - il terapeuta non può venderlo: semplicemente perché non è un suo possesso; tuttavia - lo ribadisco - è propio in questo tempo che accade il mistero della trasformazione terapeutica.

Volutamente parlo di mistero, poiché ritengo che la complessità di un autentico incontro umano contenga in sé un’eccedenza di significato che - a mio modo di vedere - non può mai essere definita o spiegata per intero; ecco perché sono portato a pensare che fra le pieghe di questa affascinante complessità permanga sempre attivo un certo quid misterioso.

Ricapitolando: prendendo spunto dal romanzo di Masina, ci siamo soffermati su questioni quali la speranza, il durare e la carità, immergendoci via via sempre più in profondità nelle dinamiche costitutive dell’incontro terapeutico; così facendo abbiamo abbracciato l'idea che quest’ultimo non sia il frutto esclusivamente di pura tecnica o di pura conoscenza.

Lo stesso Masina - in qualche modo - evidenzia questo aspetto riportando alcuni passi del capitolo tredici della prima lettera di San Paolo ai Corinzi, lettera nella quale l’apostolo tratta dell’iniziazione ai misteri cristiani e in generale della condizione umana.

A questo proposito invito il lettore a considerare questi riferimenti non dal punto di vista religioso o teologico, ma per gli spunti psicologici che in essi è possibile rinvenire.

Oltre a quelli appena citati, anticipo che nel proseguo di queste riflessioni verranno presentati ulteriori riferimenti ad aspetti inerenti al sacro e alla dimensione spirituale; ancora una volta ribadisco che anche questi ulteriori riferimenti saranno spunto per considerazioni di natura squisitamente psicologica.

Alla luce di quanto fin qui esposto, prima di riportare i passi della lettera citati da Masina, mi sembra significativo, della stessa lettera, riportare l’incipit del capitolo tredici.

Così scrive San Paolo: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla”(1). E più avanti ancora aggiunge: “La carità non avrà mai fine”(2), per poi così concludere: “Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!”(3).

Il testo fa riferimento alla carità intesa come amore disinteressato, grazia e dono divino in virtù del quale gli uomini, a loro volta, possono amarsi fra loro e al contempo amare Dio.

Pur allontanandoci dall’aspetto teologico a cui la lettera evidentemente fa riferimento (cosa che esula dalle finalità di questo scritto) manteniamo tuttavia l’attenzione concentrata sull’aspetto donativo e disinteressato tipico di questo amore, che - come abbiamo già sottolineato - è uno degli elementi cardine intorno a cui ruotano le riflessioni contenute in queste pagine.

Proprio tale aspetto ci permette - dicevo - di collegare queste riflessioni a quelle fatte da Victor Frankl (il padre della Logoterapia) a proposito dell’esistenza di un inconscio spirituale insito nell’uomo.

Alcune precisazioni sono necessarie.

II termine Logoterapia, derivante dalla parola greca Logos, rinvia contemporaneamente all’elemento spirituale e al concetto di significato. Vediamo in che senso. L’essere umano - sostiene Frankl - è strutturalmente costituito in tre dimensioni inscindibili: il corpo, la psiche e lo spirito. Quest’ultimo (lo spirito) - egli dice - non va confuso con aspetti inerenti al senso religioso dell’esistenza, né tanto meno con qualcosa di soprannaturale. Lo spirito - così lo intende Frankl - rappresenta una realtà ontologica, un tratto distintivo dell’essere umano. Se l’esistenza - egli dice - è un modo d’essere (meglio ancora: il modo d'essere specifico dell’uomo), allora l’essenza di questo specifico modo d’essere - sostiene Frankl - può essere identificata nella capacità che l’uomo ha di auto-trascendersi. A tal proposito si tenga presente che il termine esistenza (derivante dal latino ex-sistere: venir fuori) in Logoterapia indica proprio l'atto attraverso cui, nella sua dimensione spirituale, l'essere umano si allontana da se stesso, dalla sua fattualità psico-fisica e si auto-osserva. Tale separazione (si badi bene) non va intesa in senso spaziale, infatti - come si è detto - la spiritualità è considerata una realtà ontologica: essa è vista come una capacità essenziale dell'uomo, un suo aspetto categoriale. Come tale - precisa Frankl - essa non può e non deve essere confusa in alcun modo con un'entità ontica (vale a dire con qualcosa di concretamente esistente e, nella fattispecie, di realmente separato dall'uomo). Nella sua dimensione spirituale - dicevamo - l’uomo ha dunque la capacità di osservarsi per quello che è e per quello che potrebbe essere alla luce di valori oggettivi in grado di dare significato alla propria vita. Da questo punto di vista potremmo ipotizzare che lo spirito, pur non essendo l'unica dimensione costitutiva dell'essere umano, fra le tre indicate, rappresenti forse quella più propriamente umana (rilevando con ciò, in qualche modo, una certa similitudine - per quanto attiene alla priorità - con quanto scritto da San Paolo a proposito della carità). Tutti noi - sostiene Frankl - siamo portati a ricercare un significato nelle nostre vite proprio perché possediamo un inconscio spirituale che ci muove in tal senso. Tale ricerca - precisa ancora il padre della Logoterapia - avviene in riferimento a valori che egli definisce trascendenti (nel senso che trascendendo i nostri bisogni egoistici non hanno come fine il nostro tornaconto personale). E aggiunge: tale volontà di significato, radicata nell'inconscio spirituale, non va considerata alla stregua di un impulso. Se così facessimo, infatti, ci ritroveremmo a spiegare il fenomeno in questione riconducendolo all’interno della teoria dell’omeostasi. Ciò vorrebbe dire che l’essere umano sarebbe spinto ad appagare la sua sete di significato solo per ristabilire un equilibrio interiore perturbato; in sostanza l’uomo si impegnerebbe a realizzare valori e compiti non per quanto questi valgono in se stessi, ma solo al fine di ottenerne un soddisfacimento personale. Sulla base di queste considerazioni la spiegazione omeostatica va rifiutata. Si deve ritenere invece - sostiene Frankl - che l'uomo sia "attirato dal significato, e questo implica che spetta a lui decidere se desideri o meno attuare quest'ultimo. In tal modo l'attuazione del significato implica sempre una decisione da prendere”(4). Come si può notare - e ciò è fondamentale - l’esperienza del significato si collega in maniera inscindibile alla libertà e alla responsabilità personale (senza le quali non potrebbe darsi senso alcuno). Tutto ciò vale per ogni esperienza umana nella quale la dimensione del significato sia in qualche modo presente, compresa evidentemente la relazione terapeutica. Ciò di cui stiamo parlando (l’intenzione dell'uomo verso il significato) è un'intenzione primaria: l’uomo - dice Frankl - “innanzi tutto cerca li significato e nient'altro che questo”(5). Al tempo stesso (come il riferimento alla libertà e alla responsabilità personale lasciano intendere), in alcuna maniera si può “pretendere da un uomo di 'volere il significato'. Appellare alla volontà di significato vuol dire lasciare che il significato risplenda da se stesso, e poi rimettere alla volontà di volerlo”(6). Questa particolare forma di appello alla volontà può essere vista come una sorta di categoria trascendentale, nel senso che rappresenta - secondo Frankl - una condizione preliminare e necessaria all'azione dell'uomo nell’ambiente. L'uomo - egli dice - è guidato verso la sua realizzazione spirituale da tre istanze: l'Eros, l'Ethos e il Pathos. L’Eros si manifesta in una pluralità di espressioni, tutte però sono caratterizzate da un identico aspetto, e cioè dal fatto che chi "lo sente e lo manifesta non ha alcun interesse ad un possibile ‘ritorno’ in termini emotivi o di altro genere, ma trova appagamento nell'atto stesso della donazione amorosa”(7). L'Ethos rappresenta invece quell'istanza morale formale (non legata cioè ad alcun precetto morale concreto) che ogni uomo ha in sé come elemento costitutivo e che lo muove alla realizzazione del bene. Il Pathos, infine, è "l'istanza dell'inconscio estetico e spinge l'uomo alla ricerca di ciò che è bello e armonioso, sviluppando creatività, contemplazione, buon gusto”(8). A tali istanze si collegano i valori, cioè quegli orientamenti archetipici attraverso i quali l'uomo indirizza il proprio cammino esistenziale. Questi ultimi (i valori) - sostiene Frankl - sono per natura fissi, eterni e oggettivi (nel senso che l'uomo non li crea da sé per rispondere a esigenze sue personali, ma li scopre in se stesso nel momento in cui si dispone in maniera donativa nei confronti della vita). Tali orientamenti alla vita - egli dice - possono essere di tre tipi: creativi, di esperienza e di atteggiamento. Ad essi fanno riferimento rispettivamente: il lavoro, per la caratteristica dell' homo faber, l'amore per quella dell'homo amans, e infine la sofferenza per quella dell'homo patiens. È questa la triplice via che consente all’essere umano di ascendere alle altezze del significato, altezze nelle quali - come già è stato anticipato - in un tempo opportuno prende forma la dimensione dell’incontro. Per quanto in tutte e tre le occorrenze sia possibile scoprire un significato connesso alla propria unicità personale, la forma più alta di tali valori è probabilmente l’amore (così per come lo abbiamo definito). Significativamente Frankl lo definisce in questo modo: l’amore è - egli dice - un lo che si decide per un Tu. Un aspetto da tenere assolutamente presente in tutto ciò è che la dimensione del significato rende disponibili per chi la sperimenta forze che, al di fuori di tale dimensione, neanche lontanamente si potrebbe immaginare di possedere. A questo proposito - relativamente all’argomento di cui ci stiamo occupando - mi preme sottolineare che l’accesso a tali forze (che definisco creative in virtù della loro capacità di riorganizzare e trasformare in qualche modo l’esperienza) produce i suoi effetti tanto nel paziente quanto nel terapeuta. A titolo di esempio riporto una frase che molto spesso mi sono sentito dire nella pratica professionale. “Dottore, come fa ad ascoltare tutte le cose che le dico e tutte quelle che le altre persone immagino le dicano? Non le pesa?”. “Sì, a volte fa male, ma” - ho risposto ogni volta - “sento che ha un senso”.

Dopo questa non breve parentesi frankliana (dal mio punto di vista però necessaria) ritorniamo al passo della Lettera ai Corinzi citato da Masina.

“Ora vediamo attraverso lo specchio di un enigma ... poi vedremo faccia a faccia”(9), scrive l’analista, riportando il passo dell’apostolo Paolo; per poi così commentare: “L’altra faccia, sottinteso, era quella di Dio. In fondo, anche il percorso psicoanalitico poteva essere pensato come una sorta di processo iniziatico: solo al termine del trattamento i pazienti avrebbero sollevato il velo del transfert e visto il terapeuta idealizzato come persona reale, distinto dai propri genitori”(10).

Dopo aver citato San Paolo, sottolineando il fatto che il compito del terapeuta non è quello di insegnare qualcosa, ma piuttosto quello di offrire un metodo autonomamente utilizzabile dal paziente ad analisi conclusa, Masina riporta il seguente passo di Aristotele: “L’iniziato”(11 ) - scrive - “non deve apprendere qualcosa ma raggiungere una certa condizione psichica, disporsi a uno stato di coscienza alternativo, che abbatte la strutturazione dell’Io in una promessa di immortalità”(12).

“Forse il filosofo”(13) - scrive ancora Masina - “parlava della possibilità di aiutare l’iniziato a raggiungere l’inconscio: un mondo governato da leggi che correggono e compensano il modo di pensare unilaterale della Coscienza”(14).

Il riferimento ai passi citati, insieme al commento che li accompagna, mi hanno indotto a riflettere su come, a seguito del realizzarsi dell’incontro terapeutico, seduta dopo seduta, si verifichi una novità nel modo in cui paziente e terapeuta fanno esperienza insieme.

Tale novità esperienziale - mi preme sottolinearlo - diventa una capacità a disposizione di entrambi (sia del paziente che del terapeuta): ciascuno, al di fuori della seduta, spontaneamente può utilizzarla nel suo rapporto con il mondo, nei modi e nei tempi che sente più opportuni.

La precisazione mi pare d’obbligo, poiché sebbene la relazione terapeutica sia una relazione asimmetrica, nel senso che uno dei due (il terapeuta) si prende cura dell’altro, al tempo stesso - per altri versi - non si può negare che essa sia anche una relazione paritaria: l’esperienza dell’incontro è infatti ugualmente co-creata tanto dal terapeuta quanto dal paziente (e in entrambi lascia il segno del suo passaggio).

A questo proposito mi ritornano alla mente le parole di Sergio La Rosa: Nessuna relazione - egli dice - può crescere più di quanto possano crescere i membri che la costituiscono, aggiungendo, per quanto riguarda la relazione terapeutica, il seguente corollario: “Il blocco del paziente nella sua crescita clinica è inseparabile dal blocco del terapeuta”(15).

Mi attardo su queste parole e ad esse, nella mia mente, spontaneamente si agganciano le seguenti: “Ora vediamo attraverso lo specchio di un enigma... poi vedremo faccia a faccia”(16).

Come già evidenziato da Masina, possiamo certamente associare tali parole alla capacità del paziente di vedere il terapeuta oltre il velo (o senza lo specchio) del transfert.

Allo stesso tempo, ritengo essenziale sottolineare che questa visione faccia a faccia è bidirezionale: anche il terapeuta acquisisce a sua volta la capacità di vedere il paziente oltre il velo (o senza lo specchio) delle sue categorie diagnostiche.

Ciò è quanto accade in quel tempo opportuno che costituisce la dimensione spazio/temporale dell’incontro; in questa visione - io credo - consiste nel profondo la vera trasformazione terapeutica.

Il sentirsi visti e riconosciuti nella propria irripetibile unicità è un’esperienza che rimanda ad un bisogno atavico, primordiale, un bisogno che - quando è sufficientemente soddisfatto - costituisce il fondamento di quella che possiamo definire fiducia di base.

Quando siamo raggiunti da uno sguardo capace di farci sentire visti, il nostro corpo ce lo segnala e ci rende capaci di comunicare in maniera differente.

Giovanni Salonia a questo proposito sottolinea che la differenza fra le parole vuote e inefficaci e quelle che invece hanno un effetto e sono ricche di senso risiede proprio in questo: le prime non sono radicate nello sfondo di chi parla (nel suo corpo, potremmo dire); le seconde, invece, sgorgano da un corpo (lo sfondo di chi parla) e portano con sé la consapevolezza di essere dirette verso un altro corpo o sfondo che le accoglierà.

Perché questo tipo di comunicazione possa aver luogo è necessario che entrambi i soggetti comunicanti si pongano uno di fronte all’altro con tutta la propria integrità, con tutta la propria autenticità e con tutta la carità di cui sono capaci.

A titolo di esempio, riporto uno scambio verbale che più di una volta mi sono trovato a vivere nella pratica professionale.

“Dottore mi dice questo solo perché sa che ho bisogno di sentirmelo dire?”.

“Le dico questo perché è quello che sento”.

In quei momenti le parole producevano il loro effetto: i visi si ammorbidivano in un leggero sorriso e per qualche secondo parlavano solo gli sguardi.

Quanto fin qui esposto mi ha fatto tornare alla mente alcune riflessioni di Fernando Pessoa.

Così scrive il grande poeta portoghese nella sua opera Il libro dell’inquietudine: “La maggior parte delle persone s’ammala perché non sa dire ciò che vede e ciò che pensa. Dicono che non c’è niente di più difficile che definire a parole cos’è una spirale”(17).

Se ricordassimo che “dire è rinnovare”(18) - aggiunge - allora “senza difficoltà riusciremmo a definire cos’è una spirale: è un cerchio che sale senza mai riuscire a chiudersi. La maggior parte delle persone, lo so bene, non oserebbe usare questa definizione, perché suppone che definire è dire ciò che gli altri desiderano che si dica e non ciò che è necessario dire per riuscire davvero a definire”(19).

Pessoa lo dice chiaramente: se ricordassimo che dire è rinnovare allora potremmo facilmente definire la spirale.

Queste parole mi hanno fatto pensare ad una delle definizioni di contatto che compare in quello che è considerato il testo fondativo della Psicoterapia della Gestalt(20), e precisamente: “il contatto è la consapevolezza della novità assimilabile e il comportamento assunto nei suoi confronti; nonché il respingimento della novità non assimilabile. Qualunque esperienza dilagante, ripetitiva o indifferente, non può costituire un oggetto di contatto”(21).

Il contatto - precisano ancora i padri fondatori - è il processo in cui, a seguito dell’incontro fra organismo e ambiente, ha luogo l’autentica esperienza (la sola capace di donare vitalità e accrescimento).

In tale processo - come si può notare - la novità è chiave di volta, elemento cardine verso su cui si orienta l’intenzionalità personale.

Senza di essa semplicemente non può esserci esperienza.

Il cuore dell’intera argomentazione è il seguente: per avere consapevolezza della novità, oltre ad essere orientato verso l’esterno (così da poterla individuare fra i tanti stimoli) devo essere anche orientato verso l’interno (se così non fosse, mancando della percezione di me stesso, non potrei riconoscere la novità come tale).

Prendendo spunto dalle parole di Pessoa, potremmo dire che, qualora tentassi di rinnovare la mia esperienza formulando le mie descrizioni esclusivamente sulla base delle attese ambientali, finirei per vivere contatti impoveriti: alla lunga patirei il dolore dovuto al mancato incontro.

Allo stesso modo, così come non potrei incontrare davvero l’altro se fossi troppo orientato all’esterno, non potrei incontrarlo davvero neanche se fossi troppo orientato all’interno: in un caso, ci sarebbe troppo ambiente e poco organismo; nell’altro, ci sarebbe troppo organismo e poco ambiente.

È un sottile equilibrio dinamico quello che conduce al contatto pieno.

A ritmo di danza, passando da uno all’altro di questi poli, ognuno di noi ha la sua personale responsabilità nel trovare un dire che sia autenticamente un rinnovare.

Un dire che sia da corpo a corpo - potremmo aggiungere - collegandoci alle osservazioni di Salonia.

A partire da questo sfondo, le parole di Pessoa - che riporto a seguire - mi paiono illuminanti: “Una volta ho ascoltato un bambino che, volendo dire che stava quasi per piangere, non ha detto “Ho voglia di piangere” che è ciò che avrebbe detto un adulto, cioè uno stupido, ma “Ho voglia di lacrime”. E questa frase, assolutamente letteraria fino al punto che suonerebbe affettata se fosse pronunciata da un poeta celebre, si riferisce risolutamente alla presenza calda delle lacrime che irrompono d’una liquida amarezza dalle palpebre coscienti. “Ho voglia di lacrime!”, quel piccolo bambino ha ben definito la sua spirale”(22).

Tenendo presente quanto fin qui esposto e prendendo liberamente spunto dalle riflessioni del poeta portoghese, vorrei condividere la mia personale definizione di psicoterapia.

Prima di farlo, però, ritengo necessario sottolineare alcuni aspetti.

Abbiamo iniziato queste riflessioni soffermandoci su una variegata serie di duplicità.

Per citarne solo alcune: abbiamo parlato di Kronos e di Kairos; abbiamo parlato di colloqui e di incontri; abbiamo parlato di saperi specialistici e di conoscenze incarnate.

Tutte queste duplicità (per come le abbiamo intese) fanno riferimento a quelle particolari configurazioni nel rapporto figura/sfondo che caratterizzano la relazione terapeutica e ne definiscono il significato.

Ciò che mi preme sottolineare è che le varie figure emerse di volta in volta acquistano il proprio senso specifico in riferimento allo specifico sfondo dal quale sono emerse.

Cambiando lo sfondo inevitabilmente cambierebbe la figura e di conseguenza il significato.

Detto questo, io credo che la psicoterapia si possa opportunamente definire come uno speciale percorso costellato da un susseguirsi di tempi propizi nei quali il paziente e il terapeuta reciprocamente definiscono la propria spirale.




Note

(1) CEI Conferenza Episcopale Italiana, La Sacra Bibbia CEI 2008 (Italian Edition), Edimedia, Edizione del Kindle

(2) Ibidem

(3) Ibidem

(4) V. Frankl, Senso e valori per l’esistenza, pp. 57-58 cit. in Fizzotti E., Logoterapia per tutti, Rubbettino, 2002, p.118

(5) V. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcellania, 2001, p.101

(6) Op. cit., p. 102

(7) Masi L., Counseling logoterapico, I.L.I., 2001, p. 25

(8) Op. cit. p. 27

(9) San Paolo, Lettera ai Corinzi, cit. in Masina E., La speranza che abbiamo di durare. Una storia di amore e psicoanalisi, Emersioni, 2019, p. 37

(10) Masina E., La speranza che abbiamo di durare. Una storia di amore e psicoanalisi, Emersioni, 2019, p. 37

(11) Aristotele cit. in Masina E., Op. cit., p. 38

(12) Masina E., Op. cit., p. 38

(13) Ibidem

(14) Ibidem

(15) La Rosa S., La supervisione come primo step della pratica clinica, Venezia, Buenos Aires, 2017

(16) San Paolo, Lettera ai Corinzi, cit. in Masina E., Op. cit., p.37

(17) Pessoa F., Il libro dell'inquietudine (Italian Edition), p.130, StreetLib, Edizione del Kindle

(18) Ibidem, Il grassetto è il mio

(19) Ibidem

(20) Perls F., Hefferline R., Goodman P., La terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella persona umana, Astrolabio, 1997

(21) Op. cit., p. 40

(22) Pessoa F., Op. cit., p.131



Bibliografia

CEI Conferenza Episcopale Italiana. La Sacra Bibbia CEI 2008 (Italian Edition), Edimedia, Edizione del Kindle.

Fizzotti E., Logoterapia per tutti. Guida teorico-pratica per chi cerca il senso della vita, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro), 2002

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Frankl V., Uno psicologo nei Lager, Ares, Milano, 2000

La Rosa S., La supervisione come primo step della pratica clinica, in FIGUREMERGENTI Rivista della Scuola Gestalt di Torino, Numero 3: Far finta di essere sani, Torino, 2018/19

Masi L., Counseling logoterapico, I.L.I., Cagliari, 2001

Masina E., La speranza che abbiamo di durare. Una storia di amore e psicoanalisi, Emersioni, Roma, 2019.

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Salonia G., La danza delle sedie e danza dei pronomi Terapia Gestaltica Familiare, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2017





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