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muoniguido

Tipi psicologici: esperienze fra unilateralità e integrazione



Capita spesso di sentire o usare espressioni di questo genere: “Mario è un tipo estroverso”, “Giovanna è molto intuitiva”, “Franco è un sentimentale” e così a seguire.

Pensando a questi modi di dire, mi viene in mente l’immagine di una tenda di velluto: una parte di essa è ben visibile, un’altra, invece, si cela silenziosa dietro le pieghe del panno.

Prendendo spunto da questa immagine, potremmo chiederci se, al di là del significato più immediato, tali espressioni nascondano significati più profondi.

Nelle pagine che seguono, ti propongo una breve esplorazione dei concetti veicolati da tali espressioni passando - per così dire - attraverso le implicazioni contenute fra le pieghe del panno.

Per farlo farò riferimento ad un testo di Carl Jung pubblicato nel 1921.

L’opera in questione s’intitola Tipi psicologici.

Qui il grande analista svizzero, parlando delle differenze psicologiche riscontrabili fra le persone, individua anzitutto due differenze di carattere generale: esistono gli introversi ed esistono gli estroversi - egli dice - e a queste due tipologie dà il nome di tipi generali di atteggiamento.

Dopo aver presentato questi due tipi generali, Jung ne analizza altri quattro.

Questi ultimi vengono definiti tipi funzionali.

Il nome fa riferimento alle quattro funzioni (pensiero, sentimento, sensazione e intuizione) a cui ogni individuo ricorre per orientarsi e adattarsi all’ambiente.

Ciascuno utilizza prevalentemente la funzione che in lui è maggiormente differenziata.

Tieni presente che ognuna di queste funzioni può essere espressa sia in maniera introversa sia in maniera estroversa.

Dalle differenti combinazioni di questi tipi (generali e funzionali) deriva per ciascuno di noi un particolare stile di coscienza (stile con il quale - per inciso - tendiamo ad identificarci).

Per quanto riguarda i tipi funzionali, va sottolineato che Jung li suddivide in razionali (il pensiero e il sentimento) e irrazionali (la sensazione e l’intuizione).

I primi sono detti razionali in quanto presuppongono un giudizio: nella forma di un collegamento logico per quanto riguarda il pensiero, nella forma di una valutazione emotiva per quanto attiene al sentimento.

I secondi, invece, sono detti irrazionali in quanto non presuppongono alcun giudizio: la sensazione attesta semplicemente l’esistenza di qualcosa, mentre l’intuizione si limita (per modo di dire) a cogliere l’intero nell’insieme delle sue possibilità.

Fatta questa premessa, possiamo adesso dedicarci a capire che cosa significhi essere introverso e che cosa significhi, invece, essere estroverso.

La differenza fra i due - scrive Jung - è la seguente: il primo (l’introverso) interpone fra sé e la realtà esterna un elemento soggettivo attraverso il quale legge il dato esteriore; il secondo (l’estroverso) orienta se stesso attenendosi al dato esterno, cosi come appare, lasciando sullo sfondo ogni riferimento al proprio mondo interiore.

Se per caso ti stessi chiedendo quale dei due atteggiamenti sia da preferire, la risposta è (almeno secondo Jung) che non ce n’è uno che vada preferito all’altro: entrambi vanno bene, purché ciascuno conceda al rimanente un adeguato spazio di esistenza e di azione.

I problemi, infatti - precisa Jung - nascono quando l’unilateralità prende il sopravvento (qualunque sia l’atteggiamento, qualunque sia la funzione).

Ti faccio un esempio.

Mentre scrivo ho davanti agli occhi la scrivania di mio padre.

In maniera estrovertita potrei considerarla come un semplice oggetto di legno, realizzata in un certo stile, appartenente ad un determinato periodo storico. In sostanza, potrei considerarla come un semplice fatto.

In maniera introvertita, invece, potrei considerarla come la scrivania di mio padre, la scrivania dove lui ha passato tanto tempo, la scrivania sulla quale ha scritto tante cose. In sostanza, potrei considerarla nel suo aspetto simbolico.

Se tali posizioni si esasperassero fino a diventare unilaterali mi troverei in quella condizione che - scrive Jung - è ben rappresentata dall’espressione nient’altro che.

Così, ad esempio, in maniera unilaterale potrei considerare la scrivania nel suo aspetto fattuale come nient’altro che un oggetto di legno; oppure, in maniera altrettanto unilaterale, potrei considerarla nel suo aspetto simbolico come nient’altro che la scrivania di mio padre.

Ad entrambe le posizioni mancherebbe qualcosa: al fatto mancherebbe il simbolo a cui riferirsi (qui inteso come riferimento alla dimensione soggettiva) e al simbolo mancherebbe il fatto a cui appoggiarsi.

Torneremo più avanti su quest’ultimo aspetto, per il momento mi preme presentarti ancora ulteriori caratteristiche relative all’introversione e all’estroversione.

La coscienza dell’estroverso - scrive Jung - è guidata dall’esterno (perché è lì che l’estroverso ritiene si trovino gli elementi che devono essere considerati come guida per la propria condotta).

Il suo agire, pertanto, sarà guidato dall’influenza che su di lui hanno le altre persone, le idee comunemente accettate, la morale comunitaria, e così via.

A questo proposito, Jung sottolinea che non sempre l’adeguarsi alla realtà fattuale più immediata sia il segno di un buon adattamento.

Alle volte - egli dice - un simile adeguamento è più il segno di un inserimento che l’espressione di un vero adattamento.

Quest’ultimo processo, infatti, richiede qualcosa di più della semplice imitazione: per la sua realizzazione è necessaria l’integrazione fra l’elemento oggettivo e quello soggettivo.

Come ormai sarà chiaro, il punto debole dell’estroverso, quando il suo atteggiamento diventa unilaterale, è proprio la perdita della soggettività: in questo caso non c’è nessuna novità da scoprire, nessuna nuova conoscenza da acquisire, c’è solo l’imitazione del modello.

Qui il soggetto scompare lasciandosi totalmente assorbire dall’oggetto.

La coscienza dell’introverso, al contrario, pur individuando e riconoscendo al di fuori di sé le condizioni oggettive, orienta la propria condotta sulla base delle proprie disposizioni soggettive nei confronti degli stimoli esterni.

Forse leggendo queste parole potresti pensare che così facendo ognuno vedrebbe il mondo come gli pare e non per quello che è.

A questo proposito Jung scrive e ribadisce che “il mondo non è soltanto in sé e per sé, ma anche così come esso ci appare”.

Il punto su cui ruota l’intera trattazione è proprio la parola anche, vale a dire: l’integrazione opposta all’unilateralità.

Non esiste alcun criterio - scrive Jung - per poter giudicare un mondo totalmente separato e oggettivo che non sia assimilabile da parte del soggetto.

Quando la conoscenza oggettiva viene giudicata in maniera assoluta, privando il fattore soggettivo di ogni valore, a perdere valore - sottolinea il padre della Psicologia complessa - è lo stesso soggetto conoscente.

E ciò è patologico - aggiunge - perché questo significherebbe dimenticare che «la conoscenza ha un soggetto e che non vi è in genere conoscenza e neppure quindi vi è per noi un mondo, ove non vi sia nessuno che dica: “io conosco”».

Tutto ciò certamente esprime i limiti soggettivi di ogni conoscenza - precisa Jung - ma questo è quello che accade ad ogni funzione psichica (pensiero, sentimento, sensazione e intuizione): a ciascuna è necessario tanto l’oggetto quanto il soggetto, indipendentemente dal fatto che l’atteggiamento sia introverso o estroverso.

Queste argomentazioni sono simili, per certi versi, a quelle che i fondatori della Psicoterapia della Gestalt propongono con il concetto di aggressività dentale: perché possa esserci vera esperienza, vera novità e vera conoscenza - essi dicono - devono esserci un oggetto e un soggetto; e quest’ultimo deve masticare e destrutturare l’oggetto sulla base del proprio sentire e del proprio pensare, così che esso (l’oggetto) possa essere infine assimilato per quanto riconosciuto adatto e rifiutato per quanto riconosciuto inadatto rispetto al bisogno.

Tutti noi facciamo questo, qualunque sia l’attività che svolgiamo.

Pensa, ad esempio, ad un uomo di scienza impegnato a sviluppare nuove conoscenze: anche in questo caso abbiamo un incontro fra un soggetto e un oggetto.

È l’elemento soggettivo che orienta lo scienziato verso particolari campi del sapere; è sempre l’elemento soggettivo che influenza il suo persistere o rinunciare di fronte alle difficoltà che incontra; e ancora: è sempre l’elemento soggettivo che impedisce il suo cristallizzarsi nella ripetizione dell’identico.

L’intera trattazione di Jung - come già ho evidenziato - si basa sul valore riconosciuto all’integrazione (negli atteggiamenti e nelle funzioni) rispetto ai pericoli dell’unilateralità.

Quando le cose vanno bene, si ha una forma di compensazione fra conscio e inconscio per cui, ad esempio, il pensiero è ben compensato dal sentimento e la sensazione è ben compensata dall’intuizione, o viceversa.

Quando le cose vanno male, invece, ci troviamo di fronte all’espressione unilaterale di un aspetto.

Se questo accade - scrive Jung - l’elemento opposto, represso oltre misura, inizia allora a manifestare se stesso in forma arcaica, e in qualche maniera si riprende il suo spazio.

Consideriamo, ad esempio, cosa accade quando la funzione del pensiero, nella sua forma estrovertita, si manifesta in modo unilaterale.

Tale tipologia psicologica si caratterizza per orientare il proprio comportamento sulla base di analisi di tipo intellettuale (analisi riferite - giova ripeterlo - ad espetti esteriori: dati oggettivi, fatti oggettivi, idee universalmente valide, ecc.).

Queste persone - scrive Jung - di fatto elaborano una formula intellettuale orientata verso l’oggetto esterno sulla base della quale esse definiscono ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò che è buono e ciò che è cattivo.

Quando la formula è sufficientemente ampia - egli dice - questi soggetti sono di grande utilità per la società: sono gli innovatori, i riformatori, gli scopritori di nuove conoscenze che arricchiscono l’intera comunità umana.

Al contrario, quando la formula si fa più ristretta - scrive Jung - ci troviamo di fronte “un cavillatore, un sofista, un critico saccente che vorrebbe comprimere sé stesso e gli altri in uno schema”.

E aggiunge: “quanto più ci si addentra nel raggio d’azione della formula tanto più ogni forma di vita che non corrisponde alla formula s’estingue”.

Questa forma di inibizione operata dalla coscienza colpisce anzitutto i sentimenti (in quanto ritenuti espressioni di irrazionalità).

Come si è detto, però, questi ultimi, quando l’unilateralità prende il sopravvento, iniziano a manifestare se stessi in forma arcaica.

E così - scrive Jung - essi iniziano ad agire profondamente sul pensiero che li vorrebbe negare, e la loro azione diventa tanto più deleteria quanto più il loro agire si fa nascosto a quello stesso pensiero che li crede eliminati.

È allora che il pensiero incomincia a diventare dogmatico e la formula incomincia a contare più della verità.

Per proteggersi dal dubbio, l’atteggiamento cosciente diventa fanatico (e il fanatismo altro non è - precisa Jung - se non una forma di ipercompensazione del dubbio).

Quando questo accade - egli dice - il pensiero nella sua unilateralità incomincia ad assumere caratteri religiosi, fino a diventare una vera e propria forma di religione.

A questo punto il pensiero non è più un pensare, ma un semplice ripensare, cioè una ripetizione dell’identico, una ripetizione priva di dubbio e incapace di generare conoscenza.

Tutto ciò conduce il pensiero molto lontano da quelle bellezze che esso invece è in grado di produrre quando si realizza in integrazione con il sentimento.

Se ti fa piacere, nel testo indicato (Tipi psicologici) puoi approfondire questi temi, compresi gli aspetti relativi alle restanti funzioni.

Nel salutarti, concludo questo articolo con una frase di Jung che credo ben rappresenti il senso di quanto fin qui esposto: “La vita, per compiersi, ha bisogno non della perfezione, ma della completezza”.


Pubblicato il 05/10/2021

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