In questo articolo ti propongo alcune considerazioni riguardo ai concetti di benessere e di salvezza.
Nel farlo farò riferimento, fra gli altri, a due testi di Guggenbühl-Craig (Matrimonio - Vivi o morti e Il bene del male).
Nell’avvicinarci all’argomento trovo utile sottolineare che la parola latina salus, da cui deriva il termine salvezza, significa non solo salvezza, ma anche salute e benessere.
Non stupisce pertanto che Guggenbühl-Craig, illustre analista junghiano, scriva che la distinzione netta fra i due concetti oggetto di questo articolo sia una distinzione difficile, artificiale addirittura; tuttavia - egli aggiunge - essendo questi due concetti entrambi rilevanti per la comprensione della natura umana, è importante esplorarne le specificità semantiche e le loro differenti implicazioni a livello sociale.
Il benessere - egli dice - può essere identificato, da un lato, con uno stato di assenza o diminuzione di tensioni spiacevoli, dall’altro, con un’esperienza di agio, sia a livello fisico che psichico.
Rientrano all’interno di quest’area semantica: un’alimentazione adeguata, il riparo dalle intemperie, la soddisfazione sessuale, l’assenza di paure esistenziali; e ancora: le relazioni affettive appaganti, le attività fisiche e intellettuali vissute nel segno della piacevolezza, e così via.
Per quanto riguarda il concetto di salvezza - prosegue Guggenbühl-Craig - va rilevato invece che la conoscenza che abbiamo di quest’ultima deriva in gran parte dal concetto religioso di salvezza dell’anima.
Come è evidente, nel corso della storia umana sono apparse innumerevoli religioni e di conseguenza innumerevoli percorsi di salvezza, così come innumerevoli sono state le filosofie che si sono occupate di questo tema.
Le prime (le religioni) per lo più hanno collegato la salvezza alla visione e al contatto con Dio; le seconde (le filosofie) tendenzialmente la hanno invece collegata alla ricerca del senso della vita.
Ad ogni modo, nonostante la loro grande varietà - precisa l’analista svizzero - è possibile rinvenire in tutte queste esperienze un punto d’unione, e cioè il loro comune (e ritenuto necessario) confrontarsi con il tema della sofferenza e della morte.
Da questo punto di vista, come puoi notare, benessere e salvezza sono in contraddizione fra loro: mentre il primo si consegue in assenza di dolore, per raggiungere la seconda si deve percorrere una via che non esclude la sofferenza.
Abbiamo iniziato queste riflessioni mettendo in luce la vicinanza semantica fra i due concetti in esame e ora ne abbiamo sottolineato alcuni tratti distintivi. Certamente le affinità e le differenze aumentano o diminuiscono a seconda della prospettiva di osservazione, degli intenti e del contesto.
La psicologia e la psicoterapia junghiane, ad esempio - precisa Guggenbühl-Craig - tendono a considerare il benessere e la salvezza come due cose nettamente distinte. Vediamo meglio in che senso.
In riferimento al benessere, Guggenbühl-Craig mette in evidenza che l’obiettivo terapeutico è quello di aiutare il paziente ad adattarsi al proprio ambiente, sostenendolo in un processo di liberazione dai propri meccanismi nevrotici.
Per quanto attiene alla salvezza, invece, la si comprende - prosegue l’analista svizzero - facendo riferimento ad un altro concetto fondamentale della psicologia junghiana: il processo di individuazione.
Quest’ultimo non ha necessariamente (o primariamente) a che fare né con la felicità, né con l’agio, né con il benessere: esso è - scrive Guggenbühl-Craig - quella spinta che l’uomo sente in se stesso e che lo muove a “trovare la propria via di salvezza”.
A scanso di equivoci, ritengo opportuno sottolineare che tali considerazioni non hanno alcun intento di tipo teologico: si tratta invece di analisi di carattere squisitamente psicologico, inerenti a dinamiche, tendenze e forze della psiche.
L’unico elemento di contatto fra gli aspetti religiosi precedentemente illustrati (e dai quali, come si è detto, deriviamo in gran parte le nostre concezioni della salvezza) e questi ultimi di carattere psicologico è che entrambi riconoscono (per ragioni differenti) un’importanza fondamentale al confronto con l’esperienza della sofferenza e della morte.
La terapia - prosegue Guggenbühl-Craig - ha certamente l’obiettivo di aiutare il paziente a sentirsi bene e ad adattarsi al mondo in maniera sana, ma - egli dice - ha anche e soprattutto il compito di sostenerlo nel suo faticoso processo di individuazione.
Tutto ciò - come si è detto - ha a che fare (fra le altre cose) con la ricerca della propria identità e con la ricerca del senso della propria esistenza.
Secondo la psicologia junghiana, per poter conseguire questi risultati abbiamo bisogno di esplorare e integrare in noi tutti i differenti e opposti aspetti presenti nella nostra psiche: quelli più luminosi e quelli più oscuri, quelli piacevoli e quelli spiacevoli, quelli buoni e quelli cattivi; in sostanza, per così dire, dobbiamo essere pronti ad incontrare sia il santo sia l’omicida che albergano dentro di noi.
Il confronto con la nostra Ombra (ossia con tutti quegli aspetti che pur appartenendoci, solo con grande difficoltà riusciamo a riconoscere come nostri), per quanto doloroso, è necessario per il processo di individuazione.
D’altra parte, lo stesso Carl Jung affermava che “la vita, per compiersi, ha bisogno non della perfezione, ma della completezza”.
Tuttavia (va sottolineato ancora una volta), sebbene necessario, questo confronto non è semplice: né a livello individuale, né a livello collettivo.
Nel primo caso, questa difficoltà è riconoscibile, ad esempio, in quelle forme di proiezione che attribuiscono alla società nel suo insieme la causa della propria aggressività personale.
Nel secondo caso, simili processi proiettivi si possono riconoscere quando una società (o un sottogruppo appartenente alla medesima società) attribuisce ad un’altra società (o ad un gruppo esterno al proprio) le cause delle proprie negatività.
A questo punto occorre una precisazione: il processo di individuazione non significa individualismo.
Secondo la psicologia junghiana, infatti, l’Altro dimora costitutivamente dentro di noi nella forma dell’inconscio collettivo (che è considerato come una parte della nostra psiche).
Per questo motivo l’individuazione non può essere qualcosa di egoistico; al contrario: individuarci significa integrare le nostre polarità, riconoscere le nostre identificazioni e superarle, aprendoci così verso l’universale.
In quest’ottica è facile comprendere che le lacerazioni che creiamo al nostro interno sono l’immagine riflessa di quelle stesse lacerazioni che creiamo fuori di noi, e viceversa.
Per raggiungere questa totalità, lo abbiamo detto, occorre passare anche attraverso quegli aspetti dell’esperienza che non ci piacciono (perché ci causano dolore).
Nonostante essa preveda il passaggio attraverso la sofferenza - scrive Guggenbühl-Craig sottolineando il grande valore del pensiero junghiano - siamo comunque spinti verso l’individuazione.
Ci muoviamo verso quest’ultima - egli dice - come mossi da un istinto, un istinto altrettanto importante quanto quello che ci muove a placare la sete e la fame, perché - aggiunge - in essa (nell’individuazione) troviamo chi siamo veramente e il senso delle cose.
I percorsi attraverso i quali ciascuno può raggiungere l’individuazione sono molteplici: c’è chi, ad esempio, lo fa attraverso le sedute di analisi, chi attraverso il lavoro, chi attraverso l’arte, chi attraverso il matrimonio; ciascuno, insomma, sceglie la propria via di salvezza (intendendo la parola nell’accezione che le è stata data in questo contesto).
Quanto segue riassume e focalizza l’attenzione sul cuore dell’intera argomentazione fin qui esposta.
Rifacendoci ancora una volta a Guggenbühl-Craig, prendiamo come esempio il matrimonio, ma varrebbe lo stesso per qualsiasi altra via di individuazione.
Individuarsi, abbiamo detto, significa conoscere e integrare gli opposti, dentro e fuori di noi.
Per farlo dobbiamo necessariamente entrare in contatto con tutti gli aspetti che ci riguardano, compresi quelli che ci fanno soffrire.
Alcune persone fanno questo all’interno del matrimonio.
Ciò non significa che tutti debbano fare altrettanto; ma, qualunque sia la via che venga scelta per individuarsi, non si può non avere a che fare con la sofferenza data da ciò che non si vorrebbe eppure è.
A scanso di equivoci: qui non si sta parlando in alcun modo di giustificare o di sopportare la violenza (fisica o psicologica che sia).
Quello di cui si sta parlando è del modo di porsi: nello specifico, nei confronti delle relazioni; in generale, nei confronti della vita.
Possiamo farlo dalla prospettiva del benessere o da quella della salvezza: a seconda della prospettiva che utilizziamo otteniamo cose differenti.
La durata di una relazione, ad esempio, può variare sensibilmente a seconda che in essa si cerchi il benessere o la salvezza, vale a dire l’assenza di tensioni o la piena conoscenza di sé e dell’altro.
Considerare il matrimonio come una via all’individuazione - precisa Guggenbühl-Craig - non significa, evidentemente, che una relazione debba durare per sempre o che si debba fare di se stessi dei martiri dell’infelicità.
Considerare il matrimonio come via d’individuazione significa - egli dice - non rifuggire dalle difficoltà al loro primo manifestarsi, significa accettare di confrontarsi con la complessità della vita, significa assumersi la responsabilità di guardare negli abissi della propria interiorità.
Il punto essenziale è - lo ripeto - non che la relazione duri in eterno, ma che non si escluda a priori il confronto con le tenebre che inevitabilmente accompagnano la luce nel nostro vivere quotidiano.
La negazione della sofferenza è un tema che riguarda non solo l’individuo, ma anche la collettività.
Come puoi immaginare, si sono dedicati in molti all’argomento.
Lo ha fatto anche il filosofo Byung-Chul Han, e sul tema ha scritto un libro molto interessante (La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite).
Qui egli analizza la nostra società attuale, definendola una società palliativa, nella quale è anestetizzata ogni tensione, compresa quella dialettica che muove il pensiero.
Quest’ultimo - egli dice - a livello globale mostra se stesso in una illusione di movimento che, in realtà (proprio perché teme il dolore e la tensione), altro non è se non una variazione dell’uguale.
Anche la psicologia - scrive Byung-Chul Han - sembra seguire questa tendenza. E così - egli dice - dalle ceneri della psicologia negativa (che si occupa della sofferenza) vediamo nascere e prosperare la psicologia positiva (che si occupa di benessere, felicità e ottimismo).
Quasi non si ha più il tempo di meditare sulle proprie ferite, perché - scrive il filosofo tedesco-coreano - la società ci incalza per un loro veloce superamento: dobbiamo essere resilienti, e andare avanti, subito!
Questo tipo di società anestetizzata - scrive Byung-Chul Han - è stata preconizzata da Friedrich Nietzsche in Così parlò Zarathustra.
Qui il grande filosofo tedesco profetizza l’avvento di quello che egli definisce l’Ultimo uomo.
Tale uomo, si legge nel testo, perderà il potere di generare le stelle, poiché - scrive Nietzsche - “si deve avere ancora del caos dentro di sé per poter generare una stella che danza”, e quel caos l’ultimo uomo non lo avrà più.
L’uomo che anestetizza se stesso - precisa Byung-Chul Han - rinunciando al caos e alla sofferenza che questo comporta, rinuncia alla vita stessa.
Una vita completamente libera da ogni dolore e da qualunque tensione, infatti - sottolinea il filosofo tedesco-coreano - non sarebbe più una vita umana.
Procedendo in questa direzione - egli dice - si potrebbe negare perfino la negatività più estrema (la morte), ma tutto ciò non potrebbe essere fatto che a prezzo della vita stessa: a quel punto l’uomo più che un vivente sarebbe un non-morto.
Concludendo: in certi momenti sembrerebbe che l’uomo si debba salvare primariamente da se stesso; eppure, paradossalmente, è proprio in se stesso che alberga quell’istinto che, muovendolo verso la complessità e l’integrazione, è in grado di salvarlo.
Ancora una volta, ci troviamo di fronte all’ennesima opposizione che reclama la sua integrazione.
Ancora una volta, spetta a noi decidere: possiamo imboccare la via piana del benessere o possiamo avventurarci su quella perigliosa della salvezza.
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